Vescovo Domenico Pompili: “La Pasqua ci porta al di là dalla dittatura dell’algoritmo”

Il brano evangelico del giorno di Pasqua presenta una situazione che contrasta non poco con il tempo presente. È la corsa dei discepoli al sepolcro. «Cosa li ha messi in movimento? Chi è riuscito a stanarli dalla loro delusione? E perché invece noi siamo così fermi?».

Queste domande le ha rivolte il vescovo Domenico a quanti si sono ritrovati in Cattedrale per la Santa Messa di Pasqua, notando che la nostra vita era già bloccata prima della pandemia. E il riferimento non è stato al complicato fronte economico, ma a qualcosa di più profondo, che il virus ha portato alla luce, reso evidente: è «la mancanza di respiro, il vivere con il fiato corto».

«È accaduto che volendo immunizzare l’esistenza contro la sventura, il caso, la depressione, il dolore fisico, la morte, abbiamo finito con l’immunizzarla contro se stessa», ha spiegato don Domenico. «Abbiamo smarrito una verità elementare e cioè che l’uomo non è qualcosa di “bell’è fatto”, il “bell’è fatto” è incompatibile con l’amore e con la libertà. L’uomo è sempre “incompiuto”, è un cantiere aperto, “pieno di promessa”, mentre noi ci siamo fatti avvelenare dall’idea che tutto è già fatto, predisposto, pianificato. Di qui la perdita d’innovazione e la ripetizione stanca dell’identico. La Pasqua irrompe per assicurarci che vivere è “abitare nella possibilità”. La qual cosa non dipende dalle sole nostre forze».

Mons Pompili ha poi evidenziato un’altra provocazione della pagina del Vangelo: il «vide e credette» di Giovanni all’ingresso del sepolcro. Un’immediatezza che sottolinea qualcosa che va oltre l’intelligenza. Un salto di qualità che ha a che fare con la genialità. «Genio viene da gignere, che vuol dire ‘generare’, ed indica lo spirito che assiste l’uomo dalla nascita alla morte ispirandone le azioni. È geniale chi con un colpo d’occhio coglie l’insieme. Come Giovanni che scorgendo il sudario piegato da un lato intuisce l’enormità della resurrezione».

Questo è il credente: «non uno che pensa ‘positivo’, ma uno che sa vedere e amare le cose create non chiuse in sé stesse, come puri oggetti». Uno, per usare le parole di William Blake, che sa «Vedere un mondo in un granello di sabbia e un cielo in un fiore selvaggio.  Chiudere l’infinito in un palmo di mano/e l’eternità in un’ora».

Non si può dare per scontato se, come testimonia il Vangelo, anche i discepoli non avevano ancora compreso che Gesù doveva risorgere dai morti. «Si può vivere senza pensare, oppure si può afferrare il quotidiano senza curarsi del non-senso e tirare a campare. Oppure – ha concluso il vescovo – si può restare in attesa della salvezza che è qualcosa di più della guarigione. E non consiste nello stare con le braccia conserte ma nel tendere verso qualcuno o qualcosa che si trasforma in cura, dedizione e impegno.

Questo è l’augurio di Pasqua: che non ci abbandoniamo alla “dittatura dell’algoritmo” che ci dice cosa fare, né andiamo avanti a forza, ma ci apriamo alla vita con la fede cristiana». Quella descritta da Emily Dickinson come «il ponte senza arcate che immette ciò che noi vediamo nella scena per noi ancora invisibile». Ciò che è al di là, infatti, è «invisibile, come la musica, ma forte, come il suono».

Chiesa di Rieti