Aveva ragione Ugo Foscolo: il dì che nozze e tribunali ed are/diero alle umane belve esser pietose/di sè stesse e d’altrui fu la remota data d’inizio del processo di civiltà che coincise con la capacità individuale e collettiva di sentirsi in sintonia con il prossimo, parte integrante di una comunità che si dispiega all’interno di un orizzonte temporale capace di trascendere i limiti della vita umana.
Così, fin dalla preistoria, ogni cultura ha elaborato le proprie forme, i propri riti per costruire la propria identità esorcizzando il terrore della morte.
I nostri avi sabini e romani custodivano le effigi degli antenati nel larario, l’altarino domestico presente nelle sontuose domus dei ricchi così come nelle misere casæ dei plebei, riservando al culto dei morti numerose festività tra cui spiccavano i nove giorni dei Parentalia accanto ai Laralia, ai Lemuria o ai Compitalia da cui non erano esclusi neppure gli schiavi.
Il processo di risacralizzazione avviato nei primi secoli dell’era cristiana conferì al culto dei morti bagnato dal sangue dei martiri una dimensione teologica ancor più rilevante, stabilendo il duplice legame tra l’uomo e Dio, che si riverbera nel patto di solidarietà sempre attivo tra gli uomini.
In nome di questa rinnovata concezione della religio le feste dei morti si addensarono all’inizio dell’autunno, durante la stagione che prelude all’apparente morte della natura, destinata a rivivere in primavera: le fasi dell’anno liturgico, con l’alternarsi del tempo ordinario e dei tempi forti, ripercorrono questo processo intessuto di fede e di speranza nella vita eterna.
Da secoli, i Santi ed i fedeli defunti sono celebrati in due giornate contigue, ed è bello pensare che tra gli uni e gli altri nella infinita bontà d Dio si possa manifestare una sorta di simbiosi, perché crediamo che la santità non consista unicamente nel riconoscimento delle virtù canoniche da parte di un Tribunale ecclesiastico, ma possa essere un’aspirazione condivisa, una meta non irraggiungibile per ciascuno, se non proprio per tutti.
Nel segno di questa sorte comune, che ci riconsegnerà alla terra senza precluderci il cielo, preserviamo dalla dimenticanza la pia tradizione della visita al Cimitero, non dimentichiamo di accendere un lumino che arda nel buio della notte, deponiamo un crisantemo sulla lapide di un defunto.
E non trascuriamo di portare con noi i nostri figli, almeno fin quando sono bambini, passiamo il testimone alle generazioni che crescono se non vogliamo che quell’arcaico processo di civiltà segni definitivamente il suo declino.
Prof.ssa Ileana Tozzi