Da anni, a Rieti, tra la Chiesa e il territorio è presente un dialogo ininterrotto e aperto alle diverse componenti della società. Un discorso con amministratori pubblici e aziende, cittadini e classe dirigente che si sviluppa per lo più nella quotidianità, ma che non manca anche momenti di raccordo. Come nel caso dell’incontro del vescovo Domenico con i sindaci e i parlamentari espressi dal territorio in occasione delle ultime elezioni politiche che lo scorso mercoledì ha animato la Sala degli stemmi del Palazzo papale. Un appuntamento che, giunto alla seconda prova, punta a diventare una consuetudine, una sorta di tappa intermedia rispetto al Discorso alla città che il vescovo tiene il 3 dicembre in occasione della festa della Patrona.
Lo scorso anno, mons Pompili consegnò ai sindaci, «veri e propri missionari sul territorio», una riflessione fondata su tre parole: Silenzio, Sogno e Concretezza. E anche nell’incontro di mercoledì il vescovo si è affidato a una triade per dare lo spunto al dialogo con gli amministratori, invitati a ragionare su Appartenenza, Coerenza e Pazienza.
La prima parola punta a guardare oltre ogni distinzione ideologica, non per negare le differenze politiche, ma per cogliere il «tratto comune che è l’essere parte di un determinato territorio». Rispetto al totale della Provincia, i confini della Diocesi di Rieti comprendono le aree oggettivamente più spopolate e in crisi. «È vero – ha detto don Domenico – siamo all’incirca più della metà della popolazione provinciale, ma distribuita in 41 Comuni, la gran parte dei quali sotto i 1000 abitanti. Addirittura moltissimi sotto i 500 abitanti. Per non dire di Marcetelli che è entrata nella
Treccani per essere il più piccolo Comune del Lazio. Appartenere significa che questa terra viene per prima, cioè i suoi problemi devono trovarci concentrati sulla stessa linea».
Come a dire che la crisi del nucleo industriale non riguarda solo Cittaducale o Rieti o Borgorose; che le infrastrutture non sono una battaglia dell’una o dell’altra parte politica; che le acque non possono essere circoscritte a Castel Sant’Angelo o a Rieti.
E visto che il criterio dell’appartenenza vale anche per i rappresentanti nelle istituzioni nazionali, oggi non sembra impossibile «un aggiornamento del tema delle infrastrutture», a cominciare dalla Rieti/Terni che è bloccata per arrivare alla Rieti/Torano che è ferma, fino alla Salaria su cui il ministro Del Rio si è impegnato con un congruo contributo all’ampliamento.
Quanto alla Coerenza, mons Pompili non ha voluto riferirsi al dato morale – dato per scontato – quanto alla necessaria coordinazione tra fine e mezzi, perché «se manca il fine i mezzi rischiano di essere senza scopo; ma se mancano i mezzi il fine rischia di diventare una illusione». Non è un problema da poco: «dopo il referendum del 4 dicembre tutto sembra sospeso nel vuoto», e ad oggi «la macchina statale è stata smontata e non ancora rimontata». Lo si vede dalla Provincia, che mantiene competenze, ma senza soldi né personale. E lo si vede, soprattutto dopo il terremoto, dalla burocrazia, che è diventata «un problema con cui fare i conti perché provoca la paralisi». In particolare il vescovo ha posto il problema della mancanza di competenze derogatorie per il Commissario: un dato che fa trattare «una condizione eccezionale come il terremoto alla stregua di un normale contesto di pubblica amministrazione» e fa correre il rischio «di farci avvitare su noi stessi». Un pericolo che si apre anche quando il territorio tende a inventarsi continuamente nuove vocazioni. Per questo mons Pompili ha indicato un altro senso della Coerenza: quello che consiste nel portare avanti ciò che è già il presente: l’ambiente, l’agricoltura, il turismo, una vestigia di industrializzazione. «Come Chiesa – ha precisato – stiamo incentivando due aspetti: la riscoperta della Valle santa con la memoria di san Francesco, con la Valle del primo presepe, e l’attenzione ai temi ambientali con le Comunità Laudato sì».
Il tema della Pazienza, infine, è stato certo declinato dal vescovo come un invito alla rassegnazione di fronte alla lentezza dell’amministrazione e della politica. Si tratta, al contrario, di una spinta al “fare”, da leggere come un invito ad incontrarsi e trovare insieme le soluzioni possibili in un periodo di vacche magre. «Alla politica compete decidere», ha concluso don Domenico, che ha suggerito un metodo nella celebre affermazione di Tommaso Moro: «Che io possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare, che io possa avere la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare, che io possa avere soprattutto l’intelligenza di saperle distinguere».