Franco Proietti: Mafia Capitale

Franco Proietti

Il mondo guarda da sempre all’Italia con grande ammirazione per le tante bellezze che offre ma la ricorda anche per aver generato e diffuso la criminalità mafiosa. Un prodotto che avremmo fatto volentieri a meno di esportare. La devastante vicenda romana che si aggiunge a quelle più recenti di Milano e Venezia, può dar forza a quanti considerano l’Italia un paese irrimediabilmente destinato ad essere saccheggiato dalle diverse mafie che lo infestano e che, con i loro tentacoli, entrano nel cuore delle istituzioni e pilotano le risorse finanziarie di cui dispongono in direzione dei loro loschi affari.
“Mafia capitale”, che loro consideravano “il mondo di mezzo”, aveva assunto i connotati di un sistema di potere in grado di orientare le scelte dell’amministrazione comunale associando la criminalità organizzata locale, riconosciuta e coadiuvata dalle altre mafie più note, pedine ben collocate nei gangli delle istituzioni locali e nazionali, comparti forti dell’imprenditoria privata e cooperativa, uomini politici dei diversi schieramenti impegnati nella gestione della cosa pubblica.
Mentre il Paese, alle prese con una crisi economica, sociale, politica e morale devastante, avrebbe avuto estremo bisogno di rassicurare l’Europa e i mercati sulla capacità, della sua classe dirigente, di affrontare e risolvere le sue inadeguatezze, la gravissima vicenda politico delinquenziali esplosa a Roma ha offuscato la sua immagine, scoraggiato ulteriormente gli investimenti stranieri, reso ancor più precaria la convivenza civile e minacciato la stessa tenuta del sistema democratico.
La gravità di ciò che è successo è sotto gli occhi di tutti ed è a tutti chiaro che quell’intreccio politico-affaristico-malavitoso costruito per mettere le mani sulla gestione del denaro pubblico è la risultante della degenerazione del sistema politico e delle debolezze dell’apparato pubblico. L’ideatore di quel contropotere tenuto insieme con il denaro, il ricatto e la violenza, è riuscito per anni ad orientare, in favore dei suoi protetti, parti rilevanti delle risorse pubbliche disponibili. Un fenomeno ampiamente conosciuto ma, sarebbe sbagliato non ravvisare nella vicenda romana una sua specificità che merita essere indagata trattandosi di una organizzazione ideata e comandata da un militante dell’estrema destra eversiva coinvolto in gravi episodi di criminalità politica consumati nel tentativo, non riuscito, di abbattere lo stato democratico. Un soggetto contiguo alla “banda della Magliana”, non del tutto estraneo ai servizi segreti e che è uscito quasi indenne da più di un processo. Conosce l’arte della politica e i meccanismi che la regolano. Coglie al volo l’occasione della elezione di Alemanno con il quale ha condiviso la militanza politica, per mettere in piedi, alleandosi con un boss della cooperazione “rossa” già condannato per omicidio, quel sistema che gli consentirà di esercitare, a Roma, quel ruolo di comando che non gli era stato possibile acquisire con le armi.
Registrare che non è stato difficile organizzare un siffatto contropotere nella Capitale del paese potrebbe indurre alcuni a ritenere possibile estendere quella esperienza ma altri a concludere che l’Italia è un paese decisamente marcio e non risanabile se non si azzera l’attuale sistema politico-istituzionale per costruire, sulle sue macerie, un nuovo ordine inevitabilmente autoritario.
Quanti pensano, e si spera possano essere la maggioranza, di dover contrastare questa deriva hanno un’unica possibilità: quella di analizzare impietosamente le ragioni e le responsabilità per quanto è successo e battersi, con energia, per imporre finalmente una svolta nella lotta contro la delinquenza organizzata da parte dello stato, libera dai troppi condizionamenti e dalle particolari convenienze, più o meno rivelate, che ne hanno sempre frustrato l’efficacia in passato.
Non si pretende che si varino leggi capaci di estirpare questa cancrena nel giro di poco tempo ma, è legittimo pretendere che si adottino provvedimenti incisivi per fare pulizia nelle istituzioni pubbliche infestate e che risultino decisivi per impedire che eventuali nuovi assalti possano risultare vittoriosi.
Abbiamo visto che la politica, con i suoi indagati eccellenti per associazione di stampo mafioso e i numerosi nominati in posti di comando iscritti nei libri paga della banda, è direttamente responsabile di quanto è successo a Roma ma, se vogliamo consolidare e non demolire il sistema democratico, è sempre alla politica, utilmente depurata e riqualificata, che dobbiamo chiedere di rimuovere il marciume che ha generato ed a ripristinare meccanismi selettivi delle persone chiamate a gestire il bene comune che garantiscano l’assoluta e rigorosa trasparenza e strumenti per esercitare il controllo sistematico del loro operare.
E’ la Costituzione che attribuisce alla politica il compito di far funzionare la democrazia, un sistema evidentemente non perfetto ma indiscutibilmente il migliore possibile per regolare la convivenza civile con le sue istituzioni rappresentative ma, se il loro operare genera queste mostruosità è necessario domandarsi se i limiti devono essere ricercati nel dettato costituzionale o nel come si è gestita la funzione assegnata, da parte di chi l’ha esercitata.
La nostra Costituzione attribuisce ai partiti e cioè all’insieme di cittadini che si organizzano liberamente per concorrere, con metodo democratico, a decidere la politica nazionale ma, se osserviamo cosa sono diventati oggi i partiti emerge che essi non sono più quelli che erano stati immaginati dai Padri Costituenti. La loro sistematica involuzione ha ridotto i margini di salvaguardia e consentito l’affermarsi di pratiche perverse che ne hanno inficiato la funzione.
Veltroni, nella lettera pubblicata dal giornale La Repubblica, dice che la responsabilità di quanto è successo a Roma è la conseguenza dei “partiti delle tessere” e ci possiamo credere se lo dice lui che è stato Sindaco di Roma, Segretario Nazionale di un partito e costruttore dell’attuale PD che governa il paese. Egli di fatto dice che oggi i partiti non sono organismi democratici ma strumenti di potere al servizio di oligarchi: i padroni delle tessere, quelli che decidono a chi darle e a chi negarle, quelli che le comprano per comandare i processi decisionali interni e per piazzare loro uomini nelle istituzioni pronti ad eseguire gli ordini e a dirottare flussi di pubblico denaro in favore dei loro interessi. Sono partiti sempre meno cementati da idealità e valori e, più o meno tutti, palesemente diretti da un uomo solo al comando, il primo padrone delle tessere dal quale dipendono tutti gli altri. Partiti personalizzati, condizionati da finanziatori interessati, fautori di leggi elettorali e modifiche istituzionali tese a restringere sempre di più nelle mani di pochi il potere di decidere.
Se è ragionevole ritenere che il grado di penetrazione della malavita organizzata nelle strutture portanti di una società è inversamente proporzionale al livello di democrazia con la quale essa risulta gestita, nel nostro caso si potrebbe dire che la prima cosa da fare contro l’insinuante minaccia non sono gli inasprimenti delle pene ma, regole che impongano una conduzione etica e morale alla politica, senza le quali si precipiterà inevitabilmente nel “mondo della giungla”.