Di seguito il commento di Enza Bufacchi sulle colonne de Il Corriere della Sera:
“Il dibattito sul dramma dei femminicidi è sempre troppo acceso, per non dire troppo ideologico e va dalla negazione degli stessi, gli omicidi sarebbero tali al di là di chi li compie e di chi li subisce, all’ascrizione alla cultura patriarcale o maschilista di ogni responsabilità soggettiva. In mezzo tutto e il suo contrario. Innanzitutto deve essere chiarito che i termini “patriarcale” e “maschilista” sono utilizzati in senso lato, certo che oggi non esiste più la famiglia patriarcale ma il maschilismo che la permeava ha pervaso le società per secoli ed è ancora rintracciabile in innumerevoli gesti e atti di discriminazione verso le donne sia nel pubblico che nel privato.
Ciò premesso, credo che -come ogni problema complesso- la semplificazione non serva né alla comprensione, né tanto meno alla individuazione delle possibili misure di intervento per contrastarlo o risolverlo. Che la nostra sia ancora una società patriarcale o maschilista, al di là dei numerosissimi esempi di ruoli di potere gestiti ancora quasi esclusivamente da uomini, lo si può affermare anche solo considerando i tempi che sono necessari perché gli stereotipi, l’immaginario collettivo, i retaggi di una cultura millenaria, abbiano fine per far spazio a nuovi orizzonti culturali, nuove gerarchie di valori.
Questa discrasia è una costante della storia: Tocqueville ne L’Ancien Régime et la Révolution, afferma che paradossalmente la Rivoluzione Francese scoppia quando gran parte delle richieste contenute nei Cahiers de doleance erano state soddisfatte. I tempi tra l’emergere, il consolidarsi e la fine di una “specie sociale” e i tempi dell’evoluzione dell’ordine simbolico da essa generato sono asimmetrici, non sincronici. Se questo è vero, lo stesso vale anche per i valori e l’ordinamento simbolico generato in secoli di patriarcato. Essi sopravvivono oltre l’ordinamento giuridico formale che ha sancito l’eguaglianza tra i sessi, frutto dell’impegno dei movimenti femminili e femministi degli anni Settanta.
Il tempo delle grandi trasformazioni storiche non è comprimibile. Così come le esperienze di emancipazione di singoli uomini e singole donne non assumono immediatamente una dimensione sociale, anche i mutamenti sociali e giuridici significativi non producono immediatamente un mutamento simbolico, un mutamento interiorizzato capace di trasformare l’inconscio prima che l’agire. Questo è l’orizzonte di senso, o di non senso, nel quale siamo oggi.
Si può per questo affermare che tra cultura patriarcale e femminicidi ci sia una relazione di causa-effetto? Sicuramente no. Ma si può negare che la cultura patriarcale sia estranea al dramma dei femminicidi? Altrettanto sicuramente no. Ma questo è solo il primo degli elementi che determina la complessità. Ci sono poi i mutamenti sociali avvenuti in questi anni, il ruolo delle donne radicalmente mutato, fenomeni che hanno messo in discussione il potere esercitato dagli uomini in tutte le relazioni, quelle politiche, quelle lavorative, ma anche quelle affettive. Mentre le donne hanno dovuto lottare, elaborare strategie, conquistare spazi, agire, gli uomini hanno assistito a questi cambiamenti, in parte hanno resistito, ma sicuramente non hanno elaborato un nuovo modo di stare al mondo accanto a donne in condizioni di parità.
Ultime, ma non per importanza, agiscono le infinite condizioni individuali, determinate dalle caratteristiche di personalità, dalla famiglia nella quale si nasce, dall’educazione che si riceve, dalle persone che si incontrano e che contribuiscono a forgiare l’identità, dalla salute mentale, dalle difficoltà, dalle fragilità e si potrebbe continuare con un lunghissimo elenco. In questi tratti di personalità variamente combinati tra loro, sono da ricercare le cause dirette dei singoli femminicidi, quelli che per ultimi determinano la responsabilità soggettiva penale che resta personale e non potrebbe essere altrimenti.
È di tutti questi elementi, da quelli culturali a quelli personali, che si dovrebbe tener conto quando si discute dei femminicidi per affrontare il problema e cercare di comprenderlo al di fuori di uno scontro ideologico. Infine, se è difficile incidere direttamente nella dimensione personale, molto si può fare nelle dimensioni sociali e valoriali per cambiare l’immaginario collettivo e interiorizzare una diversa gerarchia di valori che contribuisca a mutare anche quella soggettiva.
Continuo a ritenere che il linguaggio sia il primo strumento che abbiamo per promuovere il mutamento auspicato, perché il linguaggio è un potente costruttore dell’immaginario collettivo. Se «i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo», declinare al femminile le parole rivolte alle donne è il modo per riconoscerle e dare loro valore, per contribuire a creare un mondo per loro più ospitale. Non nominarle, cancellarle nella lingua, è un modo per ucciderle simbolicamente prima che materialmente”. Vincenza Bufacchi, sociologa