“In tutto impieghiamo circa 10 minuti per la vestizione, prima di affrontare un turno: doppi calzari, camice, tre paia di guanti l’uno sull’altro, fazzoletti per coprire il collo, cuffia, visiera, e ovviamente la mascherina. Se si ha la necessità di andare in bagno, via tutto e poi di nuovo daccapo. E la paura è sempre la stessa: avrò eseguito ogni gesto nella massima attenzione?”
Comincia così il racconto di C.M., giovane infermiera reatina da mesi impegnata presso un reparto Covid di un ospedale umbro, che racconta la pandemia dalla prospettiva di chi, col virus, ci lavora ogni giorno.
“Siamo tornati ad essere un reparto Covid a novembre, così come lo siamo stati da marzo a metà maggio, durante la prima ondata. Ma ce lo aspettavamo da tempo… c’era già nell’aria la sensazione che il reparto, dalle sue funzioni ordinarie, sarebbe presto tornato ad essere un reparto Covid dedicato. Non eravamo preoccupati, però, perché in fondo sapevamo ormai cosa aspettarci, o credevamo di poterlo immaginare, vista l’esperienza già avuta durante il primo lockdown.
Stavolta, invece, siamo rimasti spiazzati: quasi il doppio dei pazienti, lo stesso numero di personale. Non più solo anziani, ma persone di tutte le età: donne, uomini, bambini. E se a marzo i ricoveri erano molto meno gravi, ora il reparto si è trasformato in una sub intensiva: caschi, ventilatori, Cpap, procedure per le quali non siamo mai stati formati, ma che per necessità abbiamo appreso sul campo.
Forse noi ci siamo resi conto solo ora, ed in minima parte, di come sia stata la Bergamo di marzo. Il carico di lavoro si è moltiplicato, abbiamo il triplo dei ricoveri. Per aprire i reparti Covid e mantenere i preesistenti sono state necessarie nuove assunzioni, che hanno visto arrivare neolaureati, personale inesperto o totalmente disorientato, e persino per noi che già durante la prima ondata abbiamo lavorato nei reparti Covid, non ci sono stati corsi di formazione, nessuna misura per prevenire i disagi avuti a marzo. Così, adesso, siamo al punto di partenza, quando invece il primo step dovrebbe essere proprio quello di creare una squadra.
La sensazione è quella di stare in una bolla, abbandonato a te stesso perché nel reparto non entra più nessuno, e allora passi ore infinite coi pazienti senza mai lasciarli soli, giusto il tempo di scrivere le consegne, e si torna subito da loro, perché sai che avranno bisogno di te. Devi passare il vitto, portare i carrelli biancheria e, quando accade, occuparti della salma. Psicologicamente è dura. La stessa comunicazione del decesso ai familiari non è la solita che ordinariamente avviene in reparto: sei costretto a dirgli che non potranno vedere il loro caro, e anzi, che devono immediatamente chiamare le onoranze funebri, perché il rischio è alto, e non c’è tempo da perdere.
Se il Covid ci ha cambiati psicologicamente? Ovviamente sì, ma questo vale per tutti. Per noi infermieri, forse, la paura più grande è di poter contagiare i propri cari, magari con un piccolo errore, magari sbagliando un gesto durante la vestizione.
E ai negazionisti vorrei dire questo: non sottovalutate il virus. È certamente vero che nella maggioranza dei casi si tratta di ricoveri compromessi dall’età, da patologie cardiache, o da obesità, e quindi il virus va ad aggravare situazioni preesistenti, ma non sempre è così. Ci sono casi di persone perfettamente sane, che non hanno patologie pregresse, ma che stanno ugualmente molto male, in rianimazione, intubati, col casco o sottoposti a cicli di NIV. Tutti, quindi, dobbiamo stare attenti, senza contare che di questo virus, una volta passato, non possiamo sapere cosa lascia.
Per quanto riguarda il nostro ruolo di infermieri, non ci sentiamo né paladini, né eroi, né niente: è quello che abbiamo sempre fatto. E chi pensa dell’infermiere solo cliché e luoghi comuni, beh, che continui pure. Quello che facciamo lo sappiamo solo noi, è il nostro compito ed è ciò per cui abbiamo studiato”.