III anniversario del terremoto (festa di san Bartolomeo) (Ap 21, 9b-14; Sl 145; Gv 1, 45-51) “L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo”.
Il libro dell’Apocalisse non indulge a scenari apocalittici, ma al contrario concentra la sua attenzione su una città che annuncia il superamento del mondo attuale. Gerusalemme, dunque, diventa il simbolo di un mondo nuovo e allontana lo sguardo da un mondo vecchio e ormai anacronistico. A tre anni dal terremoto siamo comprensibilmente centrati sui ritardi della ricostruzione, sullo spopolamento, su una burocrazia che non conosce deroga, sul disamore che si intravvede rispetto a questa bellissima terra. Questo è il mondo vecchio. Non basta però quest’analisi indiscutibile.
Occorre un’altra cosa: ci vuole una ‘visione’. Questo è il mondo nuovo. A dire il vero, più che una visione in questi tre anni sono prevalsi ‘punti di vista’ diversi, anche a motivo dell’alternarsi di Governi, di responsabilità personali, di varia umanità. E la tendenza ogni volta è stata quella di ricominciare daccapo, nel modo esattamente contrario a chi è venuto prima. L’effetto inevitabilmente non poteva essere che lo stallo. Senza un progetto, cioè senza un respiro lungo non si va da nessuna parte. E come si vede, proprio in questi giorni, l’Italia stessa boccheggia. Più che una visione in questi tre anni si è fatta strada una certa confusione.
Se manca uno sguardo condiviso si spegne anche l’entusiasmo, passata l’adrenalina dell’emergenza. Sapere, ad esempio, cosa fare delle cosiddette ‘Aree interne’ del Paese è un modo concreto per fare chiarezza rispetto ad un contesto che va rigenerato non per ostinazione, ma per necessità. Perché l’Italia senza i borghi dell’Appennino non è più la stessa. Occorre però che su questa priorità si converga quando si decide di infrastrutture, servizi sociali, opportunità culturali. Più che una visione in questi tre anni si è affermata una limitazione che coincide con il proprio ‘particulare’. L’ingenuità di cavarsela da soli, peraltro, è figlia di una mentalità diffusa: quella del ‘prima io’, che porta a non prendersi cura dell’insieme.
Il rarefarsi della socialità, a dispetto dei social , è l’esito triste del restringimento mentale degli individui. E quando vien meno il campo largo sulla realtà la capacità di resistere scompare. Ritrovare una ‘visione’, è l’unica strada per sottrarsi alla paralisi di un’analisi senza speranza. Lo dobbiamo non solo ai nostri figli, ma anche a quelli che non sono più tra noi. La domanda vera, infatti, non è “Da dove vieni?” quanto “Dove vai?”.