Morro Reatino, piccolo paese abbarbicato sulle montagne a Nord di Rieti, aveva vissuto tranquillamente quell’ennesimo inverno di guerra 1943-1944. Uniche novità di rilievo, la sempre più frequente presenza di partigiani che qui avevano trovato un tranquillo rifugio. Proprio a queste presenze sono da ricollegarsi alcune violenze (essenzialmente minacce, qualche aggressione e – ovviamente – furti) che videro come vittime alcuni cittadini, ben lontani dal compromettersi con il Partito Fascista Repubblicano, sia chiaro. Tutto, sembrava limitarsi a dissapori personali, odi paesani e, naturalmente, alle “necessità” della guerriglia partigiana (che ben pochi ribelli facevano).
Nulla fece presagire l’uragano di violenza che si scatenò durante il rastrellamento italo-tedesco del 31 marzo – e dei giorni seguenti – che misero fine alla guerriglia in queste zone (senza, per altro, che si verificassero scontri!).
Proprio durante questo rastrellamento avvenne un primo episodio che si prestò al plagio della vulgata antifascista e anti-italiana. Tra le molte vittime dell’operazione di controguerriglia italo-tedesca si ritrovò il corpo di Pietro Giuseppe Di Lorenzo che, logicamente, venne inserito tra i “caduti della Resistenza”, sebbene mai nulla avesse avuto a condividere con il movimento di guerriglia. Ma, al tempo, serviva inventarsi “martiri della libertà” e perciò nessuno obiettò nulla, così come nessun “ribelle patentato” disse che ad uccidere il povero Di Lorenzo era stato un Commando partigiano che lo aveva indicato – falsamente – come una “spia”.
E’ questo il clima che generò la spedizione punitiva di un gruppo di guerriglieri comunisti nella notte tra il 18 e il 19 maggio 1944, quando Morro Reatino fu sconvolto da una “legittima azione di guerra” condotta, però, contro civili innocenti, cui nulla era imputabile. Le vittime, alla fine, saranno solo quattro perché il Commando indugiò troppo a lungo nel consuetudinario “prelievo proletario” nelle case di poveri contadini locali. Essendosi fatto troppo tardi, ci si accontentò di solo quattro sventurati che vennero portati in montagna e dopo atroci torture, amputazioni di genitali ed enucleazione delle orbite vennero finiti a colpi di pietre sul capo. Questi i loro nomi: Mario Sansoni, Antonio Molinari, Romeo Pellegrino e Pietro Palenca.
Scrisse, nel primo dopoguerra, l’antifascista Giuseppe De Mori: “Il corpo di Romeo Pellegrino mostrava gli occhi strappati, la lingua mozzata e il corpo sfregiato. La salma di Pietro Palenca presentava ventidue pugnalate e altrettanto seviziati apparivano i cadaveri degli altri due disgraziati. La popolazione, convinta che in tanta efferatezza non ci fosse stato un vero movente politico, era costretta a soffrire tutto in silenzio per timore del peggio”.
La strage ebbe un triste epilogo qualche settimana dopo, quando morì Don Mariano Labella: durante la “legittima azione di guerra” dei partigiani era stato brutalmente malmenato e lasciato sanguinante a terra, nei pressi della chiesa parrocchiale. Dal pestaggio non si era più ripreso.
Il Comitato Pro 70° Anniversario della RSI in Provincia di Rieti ha chiesto al Sindaco di Morro Reatino che nella piazza principale del paese, al fianco di quella che ricorda le vittime del rastrellamento italo-tedesco, sia affissa una lapide che ricordi anche le sei vittime innocenti dell’odio antifascista.
“Dopo 70 anni – ha dichiarato il Dott. Pietro Cappellari, Responsabile culturale del Comitato Pro 70° Anniversario della RSI in Provincia di Rieti – è legittima una riflessione su quanto avvenuto nella nostra provincia durante la guerra civile scatenata dai partigiani. Ancor oggi, troppi politici o politicizzati ci parlano di una Resistenza “immaginaria” fatta di democrazia e “libertà”, anche se, quando osserviamo queste “legittime azioni di guerra” noi non possiamo non rimanere più che perplessi davanti alla politicizzazione di fatti che nulla hanno a che fare con la democrazia e la tanto sbandierata “libertà”. Pensare di cancellare certe pagine di storia, così come tacere sul vero volto della guerriglia comunista, è un’operazione che non condividiamo. Per amore davanti alla giustizia. Quando i nostri “cattivi maestri” vanno nelle scuole a parlare di lotta partigiana, di democrazia e di “libertà”, hanno mai detto che cosa fu la guerriglia? Hanno avuto mai il coraggio di parlare delle stragi partigiane? Hanno parlato anche del comunismo? Hanno ricordato le vittime innocenti dell’odio antifascista di Morro Reatino? La risposta a queste domande, dia la misura della loro moralità. Dal punto di vista storico, quello che più ci interessa, l’eccidio di Morro Reatino presenta ancora molti lati oscuri. Fermo restando che le cronache giudiziarie hanno escluso chiaramente e senza timore di smentita che le vittime dell’odio partigiano fossero delle “spie”, ancor oggi non si conoscono i nomi di tutti coloro che parteciparono a questa “legittima azione di guerra”. Ma non solo. La strage comunista richiama direttamente anche la misteriosa scomparsa del Comandante partigiano Mario Lupo (cancellato dal PCI dai libri di storia, nonostante fosse stato il migliore capo guerrigliero di tutto il Reatino). Proprio durante il processo agli autori dell’eccidio di Morro, infatti, venne fuori la storia che Mario Lupo fu ucciso dai comunisti che mal tolleravano la sua indipendenza, scottati anche dal fatto che il famoso e carismatico Comandante partigiano si era opposto a una spedizione punitiva contro le “spie” di Morro, perché sapeva che in paese non vi erano collaboratori dei fascisti. Disse chiaramente che fino a che fosse stato vivo lui, certe cose non sarebbero mai avvenute. Appunto”.