“So come ti senti”: i rifugiati del Progetto SPRAR Sabina omaggiano i malati e le vittime del Covid

“Ormai questo di fine anno è diventato un appuntamento fisso per noi, un appuntamento importante perché ci permette di fare la sintesi su ciò che è stato fatto durante l’anno”. Con queste parole Isabella D’Attilia, coordinatore del Progetto Siproimi Sabina, gestito dall’Unione dei Comuni Alta Sabina ed attuato da Il Gabbiano, ha introdotto l’ultimo evento pubblico, organizzato nel mese di dicembre dello scorso anno, prima che la pandemia sconvolgesse le nostre vite.

Ma anche alla fine di quest’anno così particolare, la necessità di lanciare un messaggio che provenisse dal progetto e che fosse rivolto all’esterno, è stata più forte di ogni paura e di ogni restrizione. Mai come in questo momento di pandemia “ci siamo sentiti tutti sulla stessa barca”, come ha tenuto a sottolineare il presidente della cooperativa Il Gabbiano, Daniela Franchi. E così è stato che le emozioni degli operatori e dei rifugiati del Progetto Sabina si sono fuse insieme in una straordinaria riflessione sul senso del Natale, che ha dato vita al percorso laboratoriale “So come ti senti”

Quindi, dopo aver addobbato l’albero di Natale del progetto con riflessioni libere sul senso del Natale, i rifugiati hanno avvertito la necessità di compiere un gesto simbolico verso chi in questo periodo ha combattuto contro il Covid, sia per chi si è ammalato ed è guarito, sia per chi ne è rimasto vittima. Durante le attività di laboratorio sono state individuate numerose concordanze tra la situazione vissuta dai malati e quella vissuta dai rifugiati, ad iniziare dallo stigma sociale che fa sentire i malati come appestati e i rifugiati come indesiderati.

La mancanza di ossigeno e di aria propria del malato, ma anche del rifugiato, costretto a viaggi di fortuna, rinchiuso nei tir, nelle cisterne e che a volte trova la morte in mare, in assenza di aria. In entrambi i casi la condizione è caratterizzata dalla perdita delle sicurezze, dalla solitudine e dal distanziamento fisico dai propri affetti. E poi, il viaggio in ambulanza e il viaggio del migrante, caratterizzati entrambi dalla speranza di riuscire a sopravvivere. E, infine, la morte in solitudine, lontano dai propri affetti, impotenti davanti al virus così come davanti ad un naufragio, lontani dalla propria casa così come dalla propria terra.

“So come ti senti” è diventata una poesia, corale, scritta dai rifugiati e recitata davanti ad alcuni malati Covid, per raccontare questa vicinanza, per trasmettere il senso di empatia sviluppato in chi ha già sofferto in passato. Una poesia intensa, emozionante, accompagnata da un dono simbolico, un cesto natalizio multiculturale, pieno di dolci tipici del natale e di cibi propri di occasioni di festa di altri popoli. Un omaggio universale, nato dentro la tradizione degli scambi natalizi, ma che ha acquisito un significato più denso perché capace di accomunare le persone, indipendentemente dalla cultura di appartenenza.

Altro momento fondante di questa iniziativa è stata la piantumazione collettiva di un albero presso il parco comunale di Poggio Moiano, non di un albero qualsiasi ma di un melograno, una pianta dai frutti rossi, pieni di semi vicini tra di loro, con un alto valore simbolico, poiché “tramandato tra le culture e le diverse epoche storiche, che rappresenta fertilità, ricchezza e unione tra i popoli”, come sottolinea Flavia Braconi, operatore per l’integrazione.

Un albero piantato, come recita la targa, “in memoria delle vittime del coronavirus e dell’immigrazione forzata, strappate tutte alla vita, lontano dai propri affetti e che, crescendo, ricorderà a tutti questo anno difficile”.

Queste attività, avvenute tutte in assenza di pubblico per via delle restrizioni dovute alle normative vigenti anti-Covid, sono confluite in un video realizzato con la collaborazione del videomaker Federico Braconi, in cui i rifugiati, porgendo gli auguri di Natale, raccomandano un modo nuovo di interpretare i fatti tragici della collettività attraverso il metodo dell’empatia, intesa come la capacità di mettersi nei panni degli altri, senza giudicare, ma cercando di comprendere e di arrivare ad un sentire comune, perché, per dirla con le parole di Ibrahim, “siamo e dobbiamo restare, tutti, fratelli”.