Bufacchi (CNA Rieti): Pandemia e questioni di genere

“La pandemia e il conseguente lockdown, hanno fatto riemergere un dibattito su un tema che, in altri tempi, si sarebbe chiamato “questione femminile”. Cosi ci si è “accorti” con stupore che sulle donne pesa ancora la maggior parte del lavoro di cura e di educazione della prole, che le donne lavorano in numero minore degli uomini, ma perdono lavoro in numero maggiore. Ora quel che veramente stupisce in questo dibattito è lo stupore!

Ma lo stupore è anche indicatore di quanto in questi ultimi anni il problema del rapporto tra le donne e l’organizzazione sociale e, più in generale, il tema della differenza di genere e delle sue implicazioni economiche, sociali, culturali e valoriali, siano spariti dall’agenda politica e siano stati appannaggio di pochi addetti ai lavori, per lo più di addette ai lavori, economiste, filosofe, sociologhe. Qualcuno deve aver pensato che in questi anni privi di movimenti femminili e femministi e delle loro lotte, si fosse compiuto qualche miracolo e che tutte le contraddizioni si fossero misteriosamente risolte.

Quando dico assenza di movimenti femminili e femministi penso a quella presenza organizzata e permanente che, attraverso l’elaborazione prima e l’iniziativa politica poi, poneva obiettivi e raggiungeva risultati cioè conquiste sociali, culturali, e non la caratteristica di episodicità di movimenti, pure encomiabili, come il Me Too.

In realtà in questi anni non solo nessuna nuova significativa conquista è stata fatta, ma quel che è più grave è l’arretramento culturale anche su elementari acquisizioni che sembravano ormai patrimonio condiviso si è tornati così a trattare i problemi che riguardano la presenza delle donne nella società come i problemi di una minoranza, dimenticando che le donne non sono na minoranza e che la differenza di genere è la differenza delle differenze, quella che si riproduce in qualsiasi classificazione, in qualsiasi ambito.

Non c’è bisogno di molti esempi per capire questo elementare concetto: i giovani sono, uomini e donne, i diversamente abili sono uomini e donne, qualsiasi minoranza etnica è formata da uomini e donne. Ho citato questo esempio perché è forse il più eclatante.

Ma perché è successo tutto questo?
Credo che l’azione dei movimenti femminili e femministi e quindi anche la loro capacità di dettare l’agenda politica ai partiti e alle istituzioni, si sia esaurita dal momento in cui l’obiettivo per il quale lottare non era più chiaramente individuato nella conquista di un diritto, quale atto di riparazione di una disuguaglianza formalmente sancita dall’ordinamento giuridico.

Negli anni ’70, ’80 e ’90 gli obiettivi dell’iniziativa politica erano chiaramente individuati, basta scorrere l’elenco delle numerosissime leggi promulgate in quegli anni, pietre miliari prima nel percorso di emancipazione delle donne e poi di valorizzazione della differenza di genere. Questo lungo processo iniziato nel 1919 con l’abolizione della tutela maritale, si conclude nel 1996, quando viene approvata la legge sulla violenza sessuale che iscrive il reato tra quelli contro la persona e non più tra quelli contro la moralità e il buon costume.

Tra queste due date il suffragio universale del 1946 e le leggi degli anni ’70, il nuovo diritto di famiglia, la legge di parità di trattamento, quella sull’interruzione di gravidanza, solo per citarne alcune perché l’elenco sarebbe lunghissimo. Sembra che la lotta per queste conquiste abbia fiaccato le donne dei movimenti e dei partiti, forse hanno pensato che l’aver affidato all’ordinamento giuridico le conquiste, fosse sufficiente a produrre i mutamenti sociali e culturali che in parte le leggi registravano, perché già maturate nella coscienza civile, in parte promuovevano. Cosi non è stato e, come in tutti i fenomeni che hanno a che fare con la vita, là dove non si producono passi in avanti, si producono arretramenti.

Che cosa si può o si deve fare ?
La mia idea è che per andare avanti bisogna tornare indietro e riprendere il compito dal punto in cui si era interrotto. Bisogna tornare a elaborare, organizzare, produrre iniziative, bisogna cioè tornare all’agire politico.

Bisogna ricominciare a lottare per tutte quelle conquiste sociali che riguardano tutti, ma che impattano maggiormente sulla vita delle donne perché per lo più o esclusivamente sono loro a subire le conseguenze dei mancati mutamenti sociali.
Ma oltre a questo e forse prima di questo c’è da svolgere un compito più difficile perché bisogna organizzare azioni che abbiano come obiettivo il cambiamento dell’immaginario collettivo, cioè un cambiamento culturale e ravvisare nel mutamento perseguito un orizzonte di senso.

L’esperienza mostra che molto spesso le leggi non bastano se non si cambia l’universo simbolico. Chi impedisce oggi alle giovani di frequentare le facoltà scientifiche? Nulla, se non stereotipi ancora largamente diffusi che prevedono ruoli maschili e femminili cristallizzati, addirittura pregiudizi sulle capacità delle donne e altre analoghe aberrazioni.

Un potente alleato di questa percezione del mondo è il linguaggio. Fino a quando il genere femminile sarà usato per definire ciò che è riferito a una donna, non sarà possibile la costruzione di un immaginario collettivo che riconosca che il mondo è popolato da due sessi. Fino a quando le donne non saranno nominate, non saranno! “Nomina sunt consequentia rerum” scriveva Giustiniano nelle Istituzioni, per dire che prima ci sono le cose e poi le si nomina, e conseguentemente che finché non le si nomina non ci sono. Nessuno forse ha espresso meglio questo concetto di come abbia fatto Wittgenstein, il grande filosofo del linguaggio, quando dice: “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”.

Per l’uso del genere femminile nella lingua italiana ci sono anche le regole scritte da due grammatici addirittura di fine ‘800. Ora ci sono le donne in tutti i mestieri e i ruoli e ci sono le regole per nominarle: le fornaie, le direttrici, le sindache, le prefette.

Perciò non possono più trovare legittimazione le espressioni “voglio essere chiamata”, o “suona male”, per perpetuare un uso sessista della lingua italiana. Quanto alla prima espressione bisogna replicare che ci sono le regole e non le preferenze individuali, quanto alla seconda che ci sono tante parole che suonano male ma non per questo non le usiamo, e che, comunque, usandole perderanno questa caratteristica. Quanto dovette suonare male la parola maestra quando la si cominciò ad usare per indicare un “maestro” donna? Eppure oggi che questo lavoro si è molto femminilizzato, quali “suona male” il maschile maestro.

Le parole declinate al femminile devono costituire il lessico della costruzione di un universo simbolico che preluda alla piena e completa espressione delle donne. La specie umana è l’unica specie che è diventato genere e proprio questa caratteristica ha prodotto il patrimonio di bellezza fatta di scoperte scientifiche, opere artistiche, letterarie, filosofiche, musicali.

Non si è riflettuto a sufficienza sul nocumento arrecato, prima alle donne, e poi a tutto il genere umano, per aver impedito loro di esprimere compiutamente la loro appartenenza al genere umano.

Celebriamo le creazioni di tanti pittori, scultori, musicisti, poeti, filosofi, scienziati, ma un cosi esiguo numero di opere di pittrici, scultrici, petesse, filosofe, scienziate, perfino di Sante, da avere la immediata percezione di che cosa l’umanità abbia perso!
Quanto ancora dovrà continuare? Quanto ancora l’umanità dovrà perdere?
Queste domande interrogano innanzitutto le donne, ma non solo le donne.”

Vincenza Bufacchi (nella foto)