Ciò che ci succede

1.
Sono da poco passate le 7 del mattino e sto correndo lungo una lingua di asfalto che attraversa la campagna veneta. siamo usciti in gruppo, ma dopo tre chilometri ho abbandonato gli altri: mi sono rigirato e adesso sto tornando indietro. Volevo correre da solo. Qui non passano praticamente auto e stamattina mi sono alzato con la voglia di sentire i miei passi uno dopo l’altro. Ormai sono all’ultimo lungo rettilineo che mi separa dalla foresteria dove alloggio. Non manca tanto per la doccia.
Sulla destra ricompaiono le mucche che ho incrociato all’andata. Sono ferme nello stesso punto. Sono di vetroresina, di grandezza naturale. Due mucche sono marroni, appena corrose dalla pioggia. La terza è giallo ocra, quasi oro. Hanno la testa alta e camminano. Sono ferme ma in realtà trasmettono la sensazione netta che stanno andando da qualche parte. Che sanno dove stanno andando e che ci stanno andando senza alcuna ansia. Le mucche sono animali domestici e miti, eppure queste tre che mi si parano davanti paiono all’inizio di migliaia di chilometri; all’inizio di una lunga migrazione. Cammineranno e poi si imbarcheranno su una nave. Siamo ad un secolo fa, e stanno andando in America. O siamo a cinquemila anni fa, e stanno seguendo Noè fino all’arca. Alle loro spalle, alla fine di questo immenso prato, c’è la cascina che Riccardo Donadon ha comprato nel 2005 per farci H-Farm, un luogo per giovani creativi che sognano di fare impresa. Sulla sinistra del rettilineo c’è un lungo campo piantato da poco dove, a cento metri, una coppia di fagiani corre veloce parallelamente alla strada.
Stimo che manchino ormai 400 metri alla foresteria. Mi ero dato questa corsa per decidere. Il record del mondo è poco sopra i 43 secondi. Per fortuna io vado enormemente più lento, ma 400 metri sono comunque pochi. Non mi manca tanto. Ripasso quello che ho capito. Ho trascorso il pomeriggio di ieri con Riccardo e Massimiliano Ventimiglia. Chiusi dentro una sala inondata dalla luce esterna, attorno ad un grande tavolo di compensato chiaro, a discutere di come potremmo lavorare insieme. Mi hanno spiegato nel dettaglio cosa è diventata questa iper-tecnologica «fattoria umana». Oltre ad accelerare lo sviluppo di startup, da un po’ di anni fanno consulenza alle aziende sui processi di trasformazione digitale.
E adesso hanno deciso di aprire un terzo filone di attività, più legato all’education: scuole che rilasciano diplomi internazionali, campi estivi per bambini e ragazzi da 5 a 18 anni, master dove acquisire competenze molto verticali in campo digitale. Qualche settimana fa hanno firmato un accordo con Cassa Depositi e Prestiti e Cattolica Assicurazioni per la costruzione di un campus di 30 ettari con tanto di biblioteca progettata dall’archistar Richard Rogers. Un campus che aspetta solo idee, prototipi di iniziative, progetti da realizzare. E che è poi la ragione principale del perché oggi sono qui anch’io. Mi piace molto che nella nostra conversazione ritorni di continuo la proiezione internazionale. L’idea che il campus, o almeno una porzione di esso, possa essere presto replicato in alcune grandi metropoli come Singapore o Dubai, così da offrire uno spaccato di cultura italiana — design, creatività, formazione, qualità della vita — nei luoghi della tachicardia globale.
Massimiliano ha un anno e mezzo più di me. A metà degli anni ’90, a 17 anni – all’età in cui io studiavo ancora i primi logaritmi e scrivevo temi prolissi su Torquato Tasso – lui ha aperto una società nel nuovo mercato creato da internet. Cinque anni dopo ha cominciato a lavorare con Riccardo, e dopo qualche altro anno lo ha aiutato a fondare H-Farm. A quel punto si è dedicato a sviluppare un’intuizione maturata nel periodo precedente, e dopo qualche altro anno ancora H-Art era diventata la realtà di gran lunga più avvincente del nuovo incubatore, con un valore che aveva superato i venti milioni di euro, ed è stata venduta a Sir Martin Sorrell, l’amministratore delegato del più importante gruppo pubblicitario al mondo. Adesso è la terza volta che ci vediamo, e ogni volta provo per lui una certa ammirazione, come mi capita sempre con tutte le persone che sono capaci di costruire qualcosa da zero. Di costruirlo e di farlo durare oltre il proprio destino personale. Di farlo durare a prescindere da loro.
2.
Ero venuto fin qui in Veneto con le idee abbastanza chiare. Avevo già fatto una chiacchierata con Riccardo qualche settimana fa, quando avevamo ipotizzato una qualche forma di collaborazione rimandando i dettagli e tenendo fermo solo il desiderio reciproco di provare a fare un pezzo di strada insieme. Entrambi, tuttavia, ce l’eravamo immaginata più leggera di quella che invece sto cominciando a rappresentarmi adesso, mentre Riccardo sta seduto di fianco a me ed insieme ascoltiamo Massimiliano, in piedi, dall’altro lato del tavolo di compensato chiaro, dentro questa stanza inondata dal sole, che mi racconta, con il dito puntato contro un grande monitor appeso alla parete, ciò che sono, ciò in cui credono, ciò che insieme possiamo far succedere.
Spengo il cervello. Dopo due ore che lo sto ascoltando semplicemente spengo il cervello perché mi accorgo che ho più pensieri di quelli che in questo momento riesco a gestire. Perché mi rendo conto che non ha alcun senso provare a prendere appunti adesso su tutte le combinazioni che si potrebbero sviluppare. Non è la prima volta che vengo qui. Mi è piaciuto sin dall’inizio, da quel mio primo ritorno a metà settembre del 2012. Da allora mi sono sempre sentito un ospite gradito. Ma oggi sento qualcosa di molto più gradevole. Mi sento quasi a casa. Sento che su questi pochi ettari posso scaricare a terra tante riflessioni di questi ultimi quattro mesi sabbatici in cui ho accumulato quintali di intenzioni.
Poi Massimiliano scappa, torna a Treviso per la recita della sua seconda figlia, ed io finalmente riesco ad isolarmi per mezz’ora nella mia stanza alla foresteria. Anche se non sono ancora in grado di decidere alcunché. Così chiamo mia moglie e le racconto tutto: che non dovrei stare a Roncade dal lunedì al venerdì; che non avrei persone da gestire; che darei un mano sulla strategia; che sarebbe compatibile con gli altri progetti non lavorativi che sto provando a portare avanti. Non ho bisogno di convincerla, come ogni volta che lei avverte che sono genuinamente convinto io. Anche questa volta capisce lei — prima di me — ciò che sento io, ciò che ho già deciso, ciò che ho appena deciso anche se non me lo sono ancora confessato. Ed è solo mentre racconto il mio pomeriggio a lei che mi rendo conto che qui a Roncade posso riconciliare tutto ciò che ho fatto fino ad ora da quando, cinque anni fa, sono rientrato in Italia. Qui ci sono le startup, qui c’è l’estero, qui c’è l’istruzione.
Ceno, dormo male, mi sveglio presto, vado a correre. Dopo tre chilometri lascio il gruppetto e mi rigiro. Ritrovo l’ultimo rettilineo che passa davanti alla cascina. Ritrovo le mucche di vetroresina a grandezza naturale che stanno andando da qualche parte lontano. Ritrovo i fagiani che invece di volare camminano anche loro, e decido che voglio venire a lavorare qui. Non fisicamente, non tutti i giorni almeno. Ma decido che questo sarà il mio nuovo posto; che non voglio esserci distrattamente. Non faccio in tempo a chiedermi da dove diavolo fosse uscita — qualche settimana fa — questa sciagurata ipotesi di impegnarmi a mezzo servizio, solo con pochi etti di cervello, solo con tre dita di una mano, solo con i vasi periferici del mio apparato cardiocircolatorio. Non faccio in tempo a trovare una risposta perché ormai sono sotto la doccia calda. L’acqua scende irruente ed io sciacquo via tutti i pensieri stanchi che mi si sono aggrappati sulla pelle in questi ultimi quattro mesi.
Prima di ripartire, raggiungo Massimiliano nella serra per fare colazione insieme. Non vogliamo lasciarci senza aver stabilito come lavoreremo. I termini del mio contratto. Non abbiamo che una ventina di minuti prima del mio trasferimento in stazione a Mestre. Porto il caffè alle labbra e ho la netta sensazione che anche lui, dopo ieri, sia arrivato alla stessa conclusione: che possiamo fare molto a condizione di accorgerci della nostra singolare complementarietà. Due vite parallele. Che un giorno convergono, senza alcun preavviso. Deve essere la bellezza di questa serra: il piacere di conversare tra le piante, la tipologia dell’arredo, la fisionomia delle persone che agli altri tavoli fanno colazione o lavorano immerse negli schermi dei computer, che trasportano vassoi e si salutano affettuosamente. Deve essere perché respirano e ti sorridono. Ma quando porto il caffè alle labbra è come se ci conoscessimo da sempre. Come se questa colazione assieme, questo appuntamento, lo avessimo fissato molto tempo addietro, magari sette anni fa, quando Massimiliano era già un imprenditore affermato e aveva appena saputo che sarebbe diventato papà per la seconda volta, ed io stavo vivendo il mio primo sabbatico e non avevo assolutamente idea di che cosa mi sarebbe capitato.
Esco di corsa dalla serra, sono in ritardo mostruoso. Arrivo a Mestre giusto in tempo per salire sul treno. A Verona scendo, aspetto la coincidenza per Trento. Entro in libreria per cercare il libro. Ogni volta è così: quando la mia testa fa pulizia, quando metto in ordine, so che c’è un libro che sta lì ad aspettarmi; devo solo capire chi lo ha scritto, com’è fatta la copertina, su quale scaffale è riposto. Questa volta sono particolarmente fortunato. Varco la soglia della libreria e me lo trovo davanti. Autoritratto nello studio, di Giorgio Agamben, pubblicato dall’editore nottetempo. Leggo la quarta di copertina e so all’istante che è senz’altro lui. Lo compro, salgo sul treno per Trento, controllo il biglietto, raggiungo la carrozza 3. I posti sono occupati da una mamma intenta a leggere un fumetto e da una bimba di pochi mesi che sonnecchia nell’ovetto. Mi fermo, mi avvicino alla bimba, le accarezzo una manina. La mamma mi guarda intenerita. La bimba apre gli occhi e mi sorride. Mia moglie e mia figlia. Sistemo il trolley e mi siedo. Parliamo un po’ ma sento che ho bisogno di iniziare il libro. Quando leggo il rapporto tra ciò che uno crede e ciò che gli succede chiudo gli occhi, richiudo il libro, so che questa frase mi resterà, che mi ribollirà in testa per parecchi giorni. L’ho sentita risalire lungo il nervo ottico fino al centro del cranio; l’ho sentita e adesso avrò bisogno di tempo per capirla appieno. Solo adesso so che andrà tutto bene.
3.
Finisce così, il mio sabbatico. Come il precedente nel 2010, mi sono concesso quello che non ci concediamo mai. Non di rallentare, ma di rallentare fino a fermarci del tutto. In questi mesi mi sono imposto di non toccare niente. Di dire “no” a qualsiasi proposta — alcune anche interessanti — per il solo fatto che mi stava capitando nel momento in cui avevo deciso che non potevo prendere alcuna decisione. Se davvero volevo che questo periodo non fosse una transizione, ma un passaggio. Mi sono sforzato di perdere occasioni. Confortato solo dalla convinzione — più volte, in questi mesi, diventata un dubbio — che in realtà non stavo perdendo niente; che solo creando questo spazio vuoto avrei potuto trovare qualcosa che ancora non avevo.
Anche nel 2010 il sabbatico è durato quattro mesi, da inizio gennaio a fine aprile. Ma allora sapevo cosa mi sarebbe successo dopo (avrei cominciato a lavorare a Bruxelles) e non dovevo cercare niente. Questa volta — ed è stata una fortuna — non ho potuto viverlo come un intervallo. Così per settimane ho abbandonato ogni regolarità: mi sono concesso dosi di moderata anarchia quotidiana; ho pensato e letto lentamente; ho preso appunti attorno a pensieri inutili; ho dato tutta l’importanza a piccoli dettagli. Soprattutto, ho vissuto di imprevisti, scoprendo che quando non programmi non è detto che non accada niente. Alle volte accade proprio ciò che non saresti mai riuscito a programmare.
Nel corso del week-end a Trento e nei giorni successivi sono andato avanti con l’Autoritratto nello studio. Ad un certo punto ho letto: «Extra: al di fuori (con l’idea di un movimento a partire da dentro — ex — di un uscire). Non è possibile trovare la verità se non si esce prima dalla situazione — o dall’istituzione — che ci impedisce l’accesso.»
Ecco, in questi mesi mi sono costruito un extra dove risiedere per un po’ di tempo. Anche se sono sempre rimasto in zona. A differenza di sette anni fa, non mi sono isolato senza internet né cellulare su un’isola a nord della Sicilia. Non mi sono volutamente disinteressato di tutto quanto, nel frattempo, stava accadendo intorno. E nemmeno sono uscito dalla situazione, dall’istituzione, per cercare chissà quale verità esterna. Piuttosto, ho voluto capire in cosa credo. Detto meno faraonescamente, ho voluto capire per cosa sono disposto ad essere paziente.
A fine febbraio sono stato in H-Farm a presentare I solitari. Sul fondo della sala un agricoltore in pensione aveva una copia del libro in mano. L’ha girata e sulla quarta di copertina, all’ultima riga della mia biografia, ha letto un giorno erediterà un trattore e tornerà a svegliarsi in campagna. A quel punto ha alzato la testa e mi ha domandato: «ma quindi, che cosa accade nel romanzo?». Ho pensato alla stagionalità delle coltivazioni, a quando il ritmo delle giornate dei contadini seguiva il levarsi e il calare del sole. «Se ti fermi per un giorno si chiama riposo», ho risposto. «Se ti fermi per una settimana si chiama vacanza. Ma se ti fermi per quattro mesi, come fanno i personaggi del romanzo, allora non puoi non fare i conti con te stesso». L’agricoltore in pensione ha annuito lievemente. «Diciamo che tutto ciò che accade nel romanzo è la conseguenza di questo errore di valutazione». Ma oggi avrei potuto dire: tutto ciò che accade nel romanzo è dovuto all’impazienza.
4.
Ci siamo dati appuntamento direttamente all’EUR. Il volo di Massimiliano era in ritardo, così quando è arrivato abbiamo ristretto i tempi del caffè e ci siamo avviati a piedi verso la villa di Pi Campus. La villa, sì. Letteralmente. Perché Pi Campus è un incubatore di startup che ha scelto come sede una villa all’EUR. A dire il vero, più di una. Sono partiti con la prima a fine 2007, ma negli anni si sono espansi ed oggi ne hanno cinque, tutte costruite in mezzo al verde intorno agli anni ’60.
Un tempo qui abitavano ricche famiglie romane e la loro servitù. Mi sono immaginato il proprietario tipico di una di queste abitazioni di lusso. Un monopolista di un qualche tipo. Un gestore di rendite. Poi Marco Trombetti ha comprato la prima e ha sostituito i tavoli e i servizi di piatti per i pranzi della domenica con le postazioni e i computer da usare dal lunedì al venerdì. Quando arriviamo davanti al cancelletto di ingresso, su questa stradina secondaria, lungo il marciapiedi sono parcheggiate una Tesla e tre Enjoy. Una foto che spiega ciò che ci sta succedendo molto più di un manuale di economia o di sociologia.
Entriamo e ci sono alcuni ragazzi nel salotto trasformato in open space. Altri sono nella stanza a fianco. Altri ancora stanno preparando un caffè in cucina. C’è un bel viavai lungo la scala interna. Marco ci racconta come ha cominciato. Con questa società che fa traduzioni online sfruttando algoritmi e intelligenza artificiale. Carichi un testo, e loro sono in grado di trovare il migliore traduttore sul mercato per quel testo specifico. Già questo rappresenta un vantaggio enorme. Inoltre, riescono a fornire a quel traduttore un testo masticato, una prima traduzione fatta a partire da un database gigantesco di frasi già tradotte prese direttamente da internet. E a quel punto l’intelligenza non artificiale e la sensibilità del traduttore fanno il resto. Con i proventi di questa società hanno iniziato a comprare ville e a finanziare altre startup.
Con Massimiliano siamo venuti qui perché c’è già stata una lunga annusata con H-Farm, perché ci sono progetti sulla formazione che si potranno sviluppare insieme, e perché parte di ciò che Marco ha già concordato con Riccardo riguarda l’ospitalità degli uffici di H-Farm presso il loro incubatore. Quando abbiamo fatto colazione nella serra, Massimiliano mi aveva parlato di questa base di appoggio a Roma. Ed io mi sto già chiedendo se finiremo in una delle due ville che abbiamo appena visitato, o in una delle altre tre che ci mancano ancora, quando Marco ci dice di seguirlo perché ci porta a vedere il suo ultimo acquisto. La sesta villa.
La villa di Antonio Gava, democristiano, per oltre vent’anni ininterrottamente in parlamento, figlio di ministro, più volte ministro lui stesso. Quando morì, nel 2008, era appena uscito da quasi quindici anni di vicende giudiziarie, dopo l’accusa che gli era stata fatta nel ’93 di concorso esterno in associazione mafiosa. Iniziamo a salire il vialetto privato che porta alla villa. Incrociamo un paio di manovali che scendono. Marco ci dice che la stanno ristrutturando, sarà pronta per metà luglio. Ci fermiamo a parlare a pochi metri dalla piscina. La pavimentazione è rotta in più punti, acqua marcia di un colore simile all’olio ristagna nella vasca. Osservo la villa davanti a me, la metà destra è in perfetto stile giapponese, con un’amplissima vetrata e materiali di legno. Quando entriamo Marco ci spiega i piani di ristrutturazione, le poche modifiche che intende fare, dove penserebbe di mettere gli uffici di H-Farm. A quel punto ci porta a vedere la stanza segreta.
La chiama così, malcelando una certa eccitazione. Spinge una porta e finiamo in questa stanzetta quadrata tappezzata di boiserie alle pareti. È la stanza più bella di tutte, con scaffali vuoti di legno scuro. Mentre penso a cosa potesse esserci nella libreria di Gava, Marco fa il gesto che tante volte ho visto fare nei film. Spinge leggermente contro uno scaffale, qualcosa scatta, e magicamente un pezzo della libreria si apre su una seconda stanza. Ci intrufoliamo e scopriamo che in realtà si tratta di una sola grande stanza separata in due da questo spesso mobile che fa da divisorio. Anche in questa seconda stanza ci sono scaffali su tutte le pareti, ma noto una piccola differenza per niente marginale. A distanza regolare, lungo gli scaffali, sono incollate le lettere dell’alfabeto. Qui non c’erano libri, qui c’era qualcos’altro. Cartelle, probabilmente. Su altri politici. Su gente che Antonio Gava frequentava abitualmente. Oppure c’era la collezione completa dei favori e delle intercessioni. Con le richieste e poi la traccia di come ogni pratica era stata evasa.
Per un attimo ho pensato a Gava che di soppiatto dalla moglie si ritirava in questa stanza vuota arredata solo con una chaise longue di velluto rosso, un tavolinetto basso di tek, una lampada old england di inizio Novecento. Me lo sono immaginato mentre spariva qui, per ore, nel corso della notte; mentre si sedeva sulla chaise longue, leggeva un capitolo del libro lasciato ancora aperto dalla sera prima, poi si alzava, cercava la lettera D, riponeva I viceré di Federico De Roberto, si spostava fino alla H, prendeva I miserabili di Victor Hugo — anche questi nella prima edizione dell’Ottocento — e a quel punto tornava a sedersi e riprendeva a leggere. Per un attimo ho pensato che avrebbe anche potuto funzionare così, l’Italia degli anni ’80. Ma Marco si è avvicinato ad un’altra parete e ci siamo ritrovati sulla soglia di una terza stanza, stavolta stretta e lunga, organizzata a mo’ di archivio, senza neppure una finestra. Non volevo credere a ciò che stavo vedendo. Quanti fascicoli sono stati classificati in questi pochi metri quadrati? Quanta cronaca è nata in questa stanza? Mi sono letteralmente ammutolito, Massimiliano e Marco mi guardavano ma io non riuscivo a dire niente. Poi Marco ci ha spiegato come aveva previsto di recuperarla, e Massimiliano si è girato a guardarmi e ha detto “tanto lo so che tu ce l’hai già un’idea per questa stanza”. In realtà no, non ce l’avevo. Ma confesso: è stata quella battuta a farmi venire voglia di trovarla.
5.
È una giornata di sole e noi siamo all’aria aperta. Su un prato, riparati da una tenso-struttura. È metà settembre e presentiamo il rapporto sulle startup a cui abbiamo lavorato al Ministero dello Sviluppo economico negli ultimi quattro mesi. Lo abbiamo chiamato Restart, Italia! ed è stato costruito con una dozzina di operatori che con cadenza pressoché settimanale si sono prestati a venire a Roma per discutere cosa proporre e come aiutare il governo ad adottare misure ambiziose. Soprattutto, per capire come trasformare una nicchia in un movimento culturale. Dopo i primi quindici giorni li ho ribattezzati policy angels. È in questi mesi che ho conosciuto Riccardo; è in questa occasione che ho visitato H-Farm.
Ho lasciato Bruxelles da pochi mesi e sono rientrato in Italia, chiamato da Corrado Passera. Passera l’ho conosciuto l’anno scorso, quando sono andato a chiedere a lui — a capo della più grande banca italiana — di sponsorizzare la Summer School sul Buon Governo che l’associazione che presiedevo aveva deciso di organizzare a Matera. Era la prima edizione, è riuscita particolarmente bene, e Passera è venuto volentieri alla nostra quinta assemblea generale. L’11 novembre. L’11/11/11. Il giorno dopo Berlusconi è salito al Colle e si è dimesso. Il giorno dopo ancora ho speso un’ora al telefono con Passera, siamo passati al tu, abbiamo discusso di come fosse andata l’assemblea e di come organizzare un nuovo incontro con l’associazione da dedicare a temi importanti per lo sviluppo dell’Italia. Tre giorni ancora e me lo sono ritrovato ministro, a gennaio l’ho rivisto, a marzo sono rientrato a Roma. Mi ha detto: «questo è un governo che rischia di passare alla storia solo per la riforma delle pensioni e per le tasse. Perché non vieni ad aiutarmi a fare qualcosa di importante per i giovani e l’innovazione?». Avevo appena acceso un mutuo e finito di ristrutturare un appartamento a Bruxelles. Alla mia futura moglie ho detto: «torno presto, tra un anno scade la legislatura e finisce il mandato del governo».
Abbiamo messo in piedi una task force, abbiamo prodotto un rapporto dettagliato, lo abbiamo reso pubblico, abbiamo scritto un decreto legge e siamo riusciti a farlo convertire in Parlamento. Servirà un libro per raccontare tutto ciò che ci è successo. Gli alti e i bassi. Le fughe in avanti e i ripensamenti. Il metodo. I pomeriggi d’estate passati a scrivere in giardino. La fiducia piena. La capacità di delegare. La squadra. La fatica per riuscire a quadrare il cerchio.
Mi torna in mente il pomeriggio di ottobre in cui mi portarono in ufficio i commenti alla bozza di decreto legge sull’agenda digitale arrivati poco prima da un altro ministero. Via fax. Dopo un po’ di anni mia moglie ha smesso di credere che sarei rientrato e ha deciso di tornare in Italia pure lei. Ci siamo sposati due anni e mezzo fa, il 13 settembre. Solo oggi mi accorgo che è lo stesso giorno in cui, nel 2012, camminavo con Passera, Riccardo e gli altri sul prato assolato di H-Farm. Non avrei mai potuto immaginare, anni dopo, di unire i puntini come sto facendo adesso.
6.
Nel 2010 sono partito per Salina. Ho raccolto gli appunti che avevo preso nel corso dei dodici mesi precedenti e una sera sono salito su un treno. La mattina seguente sono sceso a Milazzo, mi sono imbarcato, sono sceso di nuovo a Salina, ho attraversato mezza isola, sono arrivato davanti alla porta della piccola abitazione affacciata sul porticciolo di Malfa dove sarei restato per tre settimane. Non avevo internet né cellulare. Volevo scrivere I solitari, ma soprattutto volevo vedere ciò che ci succede quando usciamo dal mondo. Quando tutto ciò di cui discutono gli altri diventa qualcosa di cui noi, semplicemente, non siamo neppure a conoscenza. Volevo vedere come sarebbero state le mie giornate; e che pensieri avrei fatto, restandomene da solo dalla mattina alla sera.
Il primo giorno ho creduto di impazzire. Poi è accaduto tutto. Non parlavo con nessuno, ad eccezione del pescatore che la mattina presto mi vendeva il pesce al porticciolo, o della cassiera del supermercato. Ho scoperto i pensieri che arrivi a fare quando ti concedi un silenzio prolungato. Ho preso a fare sempre le stesse cose durante le diverse ore del giorno: scrivere indisturbato la mattina; cucinarmi il pesce a pranzo; fare un pisolino; andare a correre; arrivare in motorino fino alla lingua di terra più a sud di Salina solo per mangiare la granita più famosa di tutta l’isola; leggere in terrazza; osservare la nave cisterna attraccare due volte a settimana; scrivere il diario; leggere di nuovo dopo cena allungato sul divano; coricarmi presto. Ho capito come contare le ore, invece dei minuti. Contavo ciò che facevo, non ciò che dovevo fare. Ho scoperto quanto l’assoluta regolarità possa farti fare pensieri disordinati; quanto la testa, in quelle condizioni, si senta anche più libera di vagabondare. Ho scoperto la pazienza. In tre settimane ho scritto metà del romanzo.
Quattro giorni prima di ripartire ho finito i soldi. Sono uscito di casa, ho attraversato Malfa, sono arrivato all’unica filiale di banca presente in paese. Quando ho infilato il bancomat, lo sportello non mi ha dato niente e si è tenuto la carta. In un altro posto, in un altro momento, sarei diventato collerico all’istante. Ma a Salina, dopo tutti quei giorni da solo, sono rimasto mite. Sono entrato nella filiale e mi è parsa deserta, abbandonata, fino a quando non ho scovato un cinquantenne robusto seduto dietro ad una scrivania. Mi ha detto che era il direttore e mi ha chiesto come poteva aiutarmi. Gli ho spiegato cosa era successo e abbiamo convenuto che la cosa migliore fosse chiamare qualcuno sul continente. «Posso farla qui, una telefonata?» ma non ha capito. Ha pensato che fosse una domanda mirata a sapere se lo avrei in qualche modo disturbato. «Certo, faccia pure». Ma quando ho detto «può prestarmi il telefono?», mi ha guardato di traverso. Non ho visto nascere alcun sospetto. O almeno, alcun sospetto nuovo. Piuttosto, era come se avessi appena confermato una sua tesi. «Ma certo», mi ha risposto, ed io non mi sono sentito in dovere di dare tante spiegazioni.
Ho chiamato, ho capito come risolvere il problema, ma ho capito pure che avrei dovuto aspettare una mezz’ora buona perché tutto si sbloccasse. Così ho riagganciato, sono uscito, mi sono messo a far passare il tempo, immobile come un palo. Anche il direttore della piccola filiale è uscito, si è acceso una sigaretta, abbiamo cominciato a conversare.
«Come va giù al porto?», mi ha chiesto. Ho sentito un brivido lungo la schiena. «Bene, gli ho risposto». «Ho visto che per fortuna è riuscito a far riparare il motorino», ed è stato a quel punto che ho iniziato seriamente a preoccuparmi. Si era rotto la settimana prima, per un paio di giorni non avevo avuto la mia granita. «L’ho fatto riparare, sì. Però, scusi, lei come lo sa?». Otto, nove. I più fortunati arrivano forse a una dozzina. Di momenti come questo, nell’arco di una vita intera. Di momenti in cui ti arriva la risposta che ti fa cambiare prospettiva. Non sugli altri, non sul mondo. Ma sul racconto che fino a quel momento hai costruito su te stesso.
«Noi sappiamo tutto di lei», mi ha risposto sorridendo. Aveva un tono strano, ma più accogliente che minaccioso. Non ho fatto neppure in tempo a chiedere chi fosse noi. «Sappiamo dove abita, da chi compra il pesce, a che ora va al supermercato, il tragitto che fa quando esce a correre. Sappiamo che sta sempre solo». Su una piccola isola a nord della Sicilia, ad aprile e senza turisti, un paese di qualche centinaio di abitanti se ne accorge se arriva un forestiero. Se arriva da solo e si installa in una casetta isolata, appena sopra il porticciolo e tra altre case vuote che si popolano solamente in estate.
«Lo sa cosa si dice in paese?», mi ha chiesto sbrigativamente, senza aspettarsi una risposta. «Che lei sia un pentito di mafia». Ho fatto fatica a trattenermi. Volevo ridere ma ho capito che non era affatto divertente. «Ma certo», ha continuato, «mi spiega cos’altro dovrebbe farci qui, in questo periodo dell’anno, uno come lei? Giovane. Apparentemente in salute. Solo. Sempre rinchiuso in casa». «Sono venuto a scrivere un romanzo», ho tentato di giustificarmi. «Non si deve preoccupare. Io lo so che lei non è un pentito. Lo sto ripetendo a tutti. Però, sa. Da queste parti, quando succede qualcosa, la gente ha bisogno di trovare una spiegazione». Devo farlo sapere ad Agamben, perché non c’è solo il rapporto tra ciò che uno crede e ciò che gli succede. C’è anche il rapporto tra ciò che ci succede e ciò che gli altri credono di noi.
«E che romanzo sta scrivendo?», mi ha chiesto a quel punto il direttore di filiale. «Un poliziesco», sono stato tentato di rispondergli. Ma poi ho detto: «Un romanzo su quello che succede quando alcuni trentenni decidono di passare un sabbatico insieme, isolati da tutto il resto». Ha buttato in terra la sigaretta, l’ha schiacciata sotto la suola della scarpa. «Ho qualche anno di più, ma scommetto che ci starei bene anch’io».
7.
Dieci anni fa ho abitato all’EUR. La mattina mi alzavo e andavo al ministero del commercio internazionale, un palazzo relativamente fatiscente affacciato sui laghetti, a scrivere discorsi per il ministro Emma Bonino. Nei fine settimana passeggiavo lento per il quartiere, ed è stato in quel periodo che mi sono innamorato di tutto quel travertino bianco e — più di tutto — di quel Palazzo della Civiltà italiana costruito tra la fine degli anni ’30 e i primi anni ’40 che i romani chiamano Colosseo Quadrato. A quel tempo era chiuso e inaccessibile, e non si sapeva se sarebbe mai stato recuperato. O almeno non lo sapevo io. Ricordo i tre giorni in cui mi rinchiusi agli Archivi di Stato e diventai il maggiore esperto mondiale della scritta incisa sul frontone del Palazzo. Tutta la prima parte de I solitari è ambientata qui. Tornare oggi all’EUR, dieci anni dopo, è qualcosa che non avevo messo pienamente in conto quella mattina in cui sono andato a correre nella campagna veneta tra mucche di vetroresina e fagiani che anziché volare preferivano correre sui campi; quella mattina in cui ho deciso che avrei iniziato a collaborare con H-Farm.
Questo ritorno mi piace. Perché non ha niente di nostalgico, di costruzione malinconica di una qualche età dell’oro che non rivivrò più. E perché invece ha tutto del recupero della giovinezza, intesa come spinta, come desiderio di esplorazione, come capacità di farsi prendere in contropiede dalla meraviglia. Tornare all’EUR oggi è — per me — tornare a scegliermi una geografia: la scelta non tanto di un quartiere, quanto di un modo di vivere la quotidianità. Mi affascina terribilmente l’idea di fare il pendolare tra la campagna verde ai margini della laguna veneziana e questo quartiere bianco e metafisico pensato come avamposto di Roma verso il mare.
E poi dieci anni fa, durante i mesi all’EUR, con pochi altri italiani sparsi in giro per l’Europa abbiamo inventato RENA. È stata una lunga incubazione, ma alla fine ne è uscita un’associazione che non esisteva, che non si può imitare, che ancora oggi dura. Senza aver capito ancora se associarlo a questi mesi sabbatici, so che oggi mi sento come allora. E mi piace questo ritorno ad una certa predisposizione, ad uno stato originario, fecondo, ancora principalmente immaginario. Questo ritorno ad una consapevolezza piena di ciò che solo l’impazienza può far nascere, ma che solo la pazienza può far durare. È questo ciò di cui avevo più bisogno. Torno all’EUR con tutto il bagaglio di questi dieci anni.
Torno all’EUR alla vigilia di un nuovo impegno, di una nuova fondazione.
8.
È una giornata di sole ed io sto sdraiato sul divano. Mi sono alzato tardi, mi sto concedendo una mattinata pigra. Leggo, controllo i social, mi alzo a prendere un altro libro, torno orizzontale sul divano. È fine febbraio, il nuovo governo ha giurato ieri. Per la sua prima uscita pubblica da presidente del Consiglio, Matteo Renzi ha scelto il Veneto. Visita una scuola di Treviso, attraversa a piedi la città, poco prima di pranzo arriva a Roncade per visitare il campus di H-Farm. Quando il cellulare fa beep beep io sto decidendo quanta fame ho e se continuare a leggere o mettere a bollire l’acqua per la pasta. Il cellulare fa un doppio beep una prima volta. Una seconda. Una terza volta. Tre sms nel giro di quindici secondi. Mi sollevo dal divano e mi alzo per recuperarlo sul tavolino al centro della stanza. Suona ancora, a più riprese. Leggo il primo sms, leggo il secondo, a quel punto so già cosa dicono anche gli altri. Apro twitter, Stefania Giannini ha scritto da Roncade. È con Matteo Renzi nel suo giro veneto ed ha appena twittato — proprio da H-Farm — chi sarà il suo Capo di gabinetto. Ci siamo visti un paio di volte nei giorni scorsi. L’ultima ieri mattina, nel suo ufficio al Senato, poche ore prima del giuramento, quando mi ha chiesto di andare a lavorare con lei. È cominciata così la mia avventura al Ministero dell’Istruzione, dell’Università, e della Ricerca.
Un mese dopo ci siamo inventati un metodo, nei tre mesi successivi abbiamo incubato La Buona Scuola, e a metà giugno abbiamo spedito a Palazzo Chigi una copia riservata del Rapporto, messa in bella grafica e con l’idea di organizzare la più impressionante consultazione pubblica mai realizzata da un governo. Ce l’ho qui con me adesso, di fianco al computer, mentre scrivo queste righe. La prima versione del Rapporto conteneva un piano di assunzioni dei docenti un po’ diverso. Ha la copertina giallo-verdolina. Ne esistono solo cinque copie.
Molti altri avvenimenti, dopo quella prima spedizione, meriterebbero un resoconto a parte: la prima ora e mezza di riunione col presidente del Consiglio; i due mesi in giro per l’Italia ad incontrare studenti, docenti e presidi; il giorno del mio 37esimo compleanno passato di nuovo a Palazzo Chigi, ad aggiungere e a togliere, e soprattutto a convertire la bozza di un decreto in un disegno di legge; lo sciopero generale indetto dai sindacati; la puntata di Porta a Porta in cui Renzi disse che avevamo bisogno di più tempo; la costruzione del maxi-emendamento. Non basterà un libro per raccontare tutto ciò che ci è successo. Le ovazioni e gli abissi. Gli strappi e le oscillazioni. Il tradimento del metodo. Le notti d’estate passate al secondo piano del Ministero a riscrivere il Rapporto — quello che diventerà pubblico, quello con la copertina rossa. La fiducia a corrente alternata. L’incapacità di delegare. La squadra. La fatica per riuscire a quadrare il cerchio.
Mi torna in mente la mattina di giugno in cui mi chiamò Luigi Berlinguer: «si ricordi, dott. Fusacchia», mi disse lapidario, «non è mai stata fatta una riforma della scuola con le scuole aperte».
Un anno e mezzo dopo, a fine novembre 2015, mi sono ritrovato di nuovo a Roncade, per un TEDx su La Buona Scuola. Sono ripartito da quel mercoledì mattina di fine febbraio 2014 in cui tutto era cominciato, da quella vigilia del mio primo giorno di scuola. Solo oggi mi accorgo di quanto sia stretto il rapporto tra ciò che ci succede e ciò di cui ci convinciamo. È molto probabile che il destino non sia altro che una sequenza non casuale di coincidenze.
9.
Quando i carabinieri che andarono ad arrestarlo gli chiesero se era lui, Antonio Gava, all’ingresso della sua villa, rispose con questa frase che non riesco a levarmi dalla testa: «Sono io. Anzi, lo ero». C’è la fine di un mondo in quella frase. Non la fine del mondo di Gava. La fine del mondo che tutta l’Italia aveva conosciuto.
«Anzi, lo ero». Perché se lo fossi stato ancora, ciò che mi sta succedendo adesso non sarebbe mai accaduto. Non sarebbe mai potuto accadere di arrestare un ex ministro dell’Interno a casa sua. Era il ’93. E noi non siamo diventati un altro Paese da quel giorno. In questo mondo dove la risorsa più scarsa è il tempo, noi italiani abbiamo sprecato così tanti anni. Abbiamo creduto di aver lasciato quell’ingresso, di aver abbandonato quella villa, di aver camminato dall’EUR fino alla costa, di esserci imbarcati e di aver preso il mare aperto, e dopo quasi venticinque anni ci siamo accorti che abbiamo solo continuato a girarci intorno, che ci siamo persi in questo quartiere residenziale che ogni giorno si spopola e dove non succede niente. Che la villa di Antonio Gava è ancora da qualche parte vicino a noi, a trecento, forse quattrocento metri, anche se magari non sapremmo dire esattamente dove, se a nord-est, oppure verso sud. Ci siamo accorti che la villa di Antonio Gava è ancora lì, giusto dietro l’angolo.
Ho ripensato spesso alla stanza segreta con le lettere dell’alfabeto a spartire gli scaffali di legno scuro, e a cosa potremmo farci. Ho letto tutto quello che ho trovato su Antonio Gava: la storia della sua famiglia, la sua ascesa politica, alcuni estratti dalle carte del processo. Ma mi è servito incappare in quella risposta ai carabinieri per vedere la bellezza di ciò che sta succedendo in queste ville nascoste in mezzo al verde. Dove un tempo vivevano i potenti e crescevano i figli di papà, oggi lavorano ragazzi che vengono dal nulla, che non sono ancora niente. Ragazzi-spugna, che quotidianamente assorbono e rilasciano. Ragazzi allenati a faticare insieme, che sanno che potrebbero benissimo continuare a perdere; ma che soprattutto sanno che c’è un solo modo per sperare prima o poi di vincere, ed è non lasciare che qualcuno vicino a noi si arrenda.
Con un paio di loro ho scambiato una battuta. Altri li ho intravisti dietro ad un computer in una delle due ville che abbiamo visitato. Altri ancora hanno fatto finta di non vederci, mentre con Marco e Massimiliano passavamo da un corridoio ad una sala, da una sala ad un’altra stanza adiacente. Nei prossimi mesi voglio conoscerli tutti, uno ad uno.
E poi, quando sarà ristrutturata, voglio portarli nella villa di Antonio Gava e osservarli di soppiatto quando sentiranno scattare la parete e capiranno che c’è un’altra stanza dietro la libreria di legno. Vorrei trovarci una chaise longue di velluto rosso, un basso tavolino di tek, e sopra una lampada old england di inizio Novecento. Vorrei trovarci Federico De Roberto e Victor Hugo, e di fianco Storie della buonanotte per bambine ribelli. E poi, più di ogni altra cosa, vorrei trovarci tutto ciò che serve per realizzare un podcast. Li intervisterò, registreremo tutto, lo diffonderemo in rete, e faremo in modo che lo ascoltino migliaia di studenti nati dopo quel ’93. A ciascuno di loro lo dico sin da adesso, lo dico qui: saranno interviste intime, sulle loro debolezze, su come ci convivono, su come stanno provando a superarle, su come ciascuno di loro ogni giorno impara ad essere chi non è ancora. Sul rapporto tra ciò in cui crediamo e ciò che non deve succederci mai. Sarebbe bello che si preparassero studiando l’interpretazione figurale che Erich Auerbach usò per spiegare La Divina Commedia. Perché nel posto più segreto dell’Italia che è stata proveremo a raccontare apertamente il mondo che sarà. Mi immagino le loro più nascoste aspirazioni, la fiducia con cui guardano a ciò che ancora potranno fare, a chi diventeranno. Mi immagino degli sconosciuti a cui chiedo conferma di aver capito bene il nome, che mi guardano e mi rispondono: «Siamo noi. Anzi, lo saremo».
10.
Ed io, lo sarò?
Mi piace questo ritorno all’EUR, questo ritorno a dieci anni fa con tutto ciò che nel frattempo è stato. Ma tra dieci anni? Che cos’altro mi sarà successo? Ci sono 30 ettari di terreno in centro a Rieti. Chiusi da un muro di cinta che, impedendo di guardare dentro, nega ogni compassione. 30 ettari abbandonati a loro stessi da parecchi anni ormai. 30 ettari disabitati oggi, ma che per decenni — il secolo scorso — hanno prodotto quantità industriali di rayon esportato in tutto il mondo.
Nel corso degli ultimi due anni e mezzo, con un gruppo di giovani reatini, abbiamo provato a costringere ogni nostro concittadino a fare i conti con la storia della SNIA Viscosa e a scommettere sul suo recupero. Nel maggio del 2015, una compagnia eclettica di progettisti, architetti ed esperti di politiche culturali e urbane formatasi per l’occasione ha trascorso una settimana a Rieti per cercare di immaginare, di visualizzare, cosa si sarebbe potuto fare per riscattare questo luogo.
Mi torna in mente il momento di restituzione pubblica alla cittadinanza, con la presentazione sotto gli archi del Vescovado del lavoro fatto nel corso della residenza appena terminata. Mi torna in mente il telone con proiettata quell’immagine artificiale (nel senso etimologico di «fatto, ottenuto con arte») del paesaggio naturale della SNIA Viscosa, dei suoi ettari coperti di vegetazione cresciuta disordinatamente, e al centro — aggiunti al computer — più container di legno. Piccole casette di una sola stanza, completamente ecologiche. Il riscatto di un imponente sito industriale che avviene attraverso questi contenuti insediamenti umani, temporanei e amovibili in qualsiasi momento. E dentro ognuno di questi container una neonata attività produttiva — artigianale e digitale — figlia di questo territorio, della sua storia, della sua orografia. Delle sue vallate e del suo volo a vela.
Ci ho messo parecchi mesi, dopo quella domenica di maggio, per accorgermi che questi container immaginari assomigliavano terribilmente ai parallelepipedi di legno e vetro sistemati sul prato di Roncade e che non si vedono — che solo malamente si intuiscono — alle spalle della cascina, sullo sfondo delle tre mucche di vetroresina con la testa alta e fiera, che sembrano appena partite per un lungo viaggio e che ad un certo punto vi si parano davanti, se state correndo su questa stretta lingua di asfalto che si fa strada tra vasti campi coltivati di recente. Quasi un secolo fa la SNIA Viscosa attrasse a Rieti centinaia di famiglie da tutta Italia. Pare che molte, tra la fine degli anni ’20 e i primi anni ’30, arrivarono qui partendo dalla campagna veneta. Il rapporto tra ciò che ci è successo e ciò che risuccederà.
Alessandro Fusacchia